1.
Alex camminava oramai da una ventina di minuti. La macchina era dal meccanico. La bici era scassata.
I pullman non li sopportava, gli davano insicurezza: salivi non si sa quando su quei bisonti di ferro e non sapevi quando scendevi.
Ad Alex sembrava di perdere il controllo del suo tempo.
I taxi gli piacevano, ma i soldi chi ce li aveva…?
Per questo, quel giorno di ottobre, aveva deciso di andare a piedi fino alla stazione, dove avrebbe preso il treno.
Eh sì, il treno. Un’altra incognita temporale, ma di qualcosa alla fine doveva pur fidarsi.
E del treno DOVEVA fidarsi. E poi il treno era un bel ambiente: la gente più disparata popolava quelle carrozze così vecchie e decrepite, ma solide e scomode.
Per lo più Alex stava nei vagoni in cui pullulavano uomini e donne a metà tra contrabbandieri e vagabondi, oppure dove ciclisti improvvisati e improponibili, in giornate uggiose, si lanciavano in viaggi assurdi e avventurosi.
Lui, tranquillo, osservava e se la ghignava dietro i suoi occhiali da sole a specchio, che riflettevano questi personaggi, troppo simpatici per non starci insieme, almeno per una ventina di minuti.
La sua camminata era veloce, quasi militaresca e nel mentre pensava alla riunione delle 9.00 sugli obiettivi del mese: solo al quinto punto della sua imminente relazione, Alex si accorse di camminare fianco a fianco con un ragazzino, probabilmente di prima media.
Se ne accorse perché la cartella delle Tartarughe Ninja del bambino era talmente grande rispetto a lui che doveva costantemente dare un colpo di spalle per evitare che gli cadesse, e uno di quei bruschi movimenti lo aveva urtato, colpendogli il sedere. Non fu un vero e proprio colpo. Ma si sa, al mattino ogni urto è un fastidio.
Alex abbassò lo sguardo e vide questo marmocchietto che traballava sull’asfalto.
Il ragazzino, al contrario, non si era accorto di lui e continuava a tirare dritto, tutto concentrato a mantenere il suo equilibrio precario.
2.
— 2…4…8…10…12…14…16… ok la so, bofonchiò il ragazzino.
— 6…12…18…21…24…no…6…12…18…24, a questo punto, spuntarono le dita dalla giacca leggermente troppo grande.
— Mamma mia, sono finito. Quella del sei non me la ricordo: la prof.ssa mi sgriderà!, disse con la voce rotta dalla paura.
— 6…12…18…24…30… ora è facile! 36!, esultò ora quasi febbricitante.
— Bravo!, commentò Alex, che si era intrufolato nei suoi discorsi matematici.
Il ragazzino rimase per un attimo turbato, poi abbozzò un sorriso che evidenziava tutto il suo imbarazzo.
Infine i due tornarono a camminare, come se quel attimo non fosse mai esistito.
— 8… 16… 24… 32… 48… 56… … uffa!, si innervosì il ragazzino.
— 64, suggerì piano Alex, oramai catalizzato dallo sforzo del suo vicino compagno di camminata.
— Non vale così!, protestò il matematico in erba, e con piccola furia accelerò il passo per allontanarsi dal suggeritore sgradito.
Alex fece spallucce e ritornò ai suoi pensieri sul vantaggio di prendere il treno. Ma oramai quel piccolo essere, avanti a lui di qualche passo, lo aveva ipnotizzato e non riusciva a non ascoltare i suoi traffici mentali.
Evidentemente stizzito dai suoi interventi, il ragazzo aveva cambiato materia, forse troppo distratto da quelle invadenze.
— Francia, Parigi; Germania, Berlino; Irlanda, accidenti, faceva rima con Berlino… DUBLINO!, gridò vittorioso.
— Ooooook!, esultò anche Alex come davanti ad una conquista epocale per l’umanità. E proseguì, noncurante del fastidio che poteva causare.
— Danimarca?, interrogò rapido Alex.
— … Corphenaighen…
— … Ooook!
Il ragazzino, forse incoscientemente, continuava a camminare, in una trance agonistica geografica.
— Russia?, insistette Alex.
— Min…
— No, quella è l’Ucr…
— La so, la so, la so, e si strinse la testa tra le mani, è l’Ucraina! La Russia è Mosca, l’insetto!
Alex era tra il divertito e il sorpreso.
Quel piccolo ometto era in una gara strampalata contro se stesso. Era inarrestabile.
Continuava a camminare qualche metro davanti a lui con dei passettini da formichina e, ogni tanto un secco colpo di spalle, riportava la cartella nel suo equilibrio instabile.
Ora era ritornato muto. Si girò un attimo e fece fulmineo una linguaccia ad Alex che rispose con un pollice alzato.
Sapeva che era uno sfogo innocente, come quel suo parlottare da solo. Ora l’uomo ritornò a pensare alla sua riunione, lasciando in pace lo studentello davanti.
Inevitabilmente però ritornò ad ascoltare i segreti del suo compare di viaggio.
— Dopo geografia ho l’intervallo. La merendina dove l’ho messa? Ah sì qui, qui: che buona la Kinder delice. Un pezzettino ora: no! Mamma mi ha detto di non mangiarla prima, che se no mi fa male. E poi non ce l’ho più dopo. Urca devo ricordarmi: Marika deve ridarmi la gomma. La gomma pane! Mamma mi detto che non me ne compra più altrimenti: ne ho già perse tre! Ma non è colpa mia sempre. Una l’ho buttata contro Fabio, che mi fa troppi scherzi. Solo che è finita dove? Boh.
Il monologo a voce alta oramai era un fiume in piena.
— Ma poi perché tutti i giorni si fa lo stesso orario. Cioè, no domani ho professori diversi ma dopo un po’ si ripetono. E poi perché non c’è il televisore in classe: così per fare pausa un poco. Certo usare i pennarelli è bello: io però ho sempre paura di sbagliare a usare il colore. E se la professoressa vuole il blu al posto del verde? A me il rosso piace, lo userei sempre, ma poi tutto è rosso e non sarebbe bello come quando c’è solo alcune volte, nei posti giusti. Ma la maest… no la PROFESSORESSA, vuole che la chiamo così, chissà che differenza fa? A me la maestra era simpatica, perché non posso continuare a chiamare così la maestra di Scienze che è così simpatica. Sì, sì: la vorrei proprio chiamare MAESTRA. Mi ricorda la mamma, ma poco. Un po’ sì però.
Alex era estasiato.
— Ma quanto cacchio pensa ‘sto fringuello. Io sarei già morto dal mal di testa! E sono solo le 7.10 del mattino!
E questo, senza accorgersene, Alex lo disse anche lui ad alta voce, sovrappensiero.
Il ragazzino si bloccò. Cominciò a trafficare con la manica sinistra della giacca finché riuscì a spostarsi un guantino di lana, quelli tipo muffola, e proclamò:
— No no! Sono le 7 e 5 più 1, 2, 3, 4: sono le sette e zero otto. Ho imparato ieri a leggere l’orologio con le lancette! Sì, sì: tra poco sono le sette e dieci!
Alex non trattenne una risata fragorosa.
— Ehi! Non vale che ascolti i miei pensieri, piccolo!
Il ragazzino divenne rosso come una polpa di arancio.
— Mi scusi signore non volevo farla arrabbiare.
— No no, non mi sono arrabbiato. Scherzavo! Tranquillo.
La sua frase giunse in ritardo perché due lacrimoni comparvero sul visino innocente del giovane compagno di camminata.
Alex capì che l’ironia per quel ragazzino era ancora un mondo da scoprire.
— Ehi non piangere dai: come ti chiami. Io sono Alex. Facciamo pace coraggio!
— Mi chiamo Tommaso, bofonchiò mentre continuava a piagnucolare. Alex si mortificava sempre di più: avrebbe voluto riavvolgere il nastro della vita di qualche minuto per evitare quella scena.
— Ok, ok, ti lascio un po’ da solo, si arrese Alex e fece due passi indietro per lasciare respirare in solitudine Tommaso.
— E ora cosa dico a mamma: ho fatto arrabbiare uno sconosciuto con cui non dovevo neanche parlare. Uffa!
Di colpo un gabbiano volò radente, sfiorando la testa dei due passati e con un colpo d’ali si alzò proprio sopra la testa di Tommaso.
— Uao! Un gab…biano! Ehi! Ehi! Torna indietro, torna indietro!, e rapidamente il ragazzino corse alla balconata di pietra sul ponte.
Con le sue braccia troppo corte si aggrappò alla balaustra tentando di alzarsi per vedere la repentina virata in basso, sul pelo dell’acqua dell’uccello.
— Ciao! Ciao!, e con la manina salutava e si teneva aggrappato al balcone sul fiume.
— Ciao, Ciao! Salutami i pesci! Ciao! Gabbiano: che bello che sei! Voglio anche io volare come te! E vorrei vedere tutte le capitali, e vorrei volare sopra tutti i numeri delle tabelline. Mi capisci vero! Gabbiano! Gabbiano! Voglio vederli tutti i numeri: tutti tutti. Vorrei vederli uno a uno per potere poi dire alla professoressa che li ho visti, anche se non li so ripetere. Ciao! Buon viaggio!
E a questo punto, come un profeta di quelli della Bibbia, quelli che vedevano cose che gli altri non vedevano e sapevano cose che gli altri non conoscevano, si girò con una sacralità tutta infantile verso Alex, che si era fermato pure lui.
Rideva con il naso rosso dal freddo autunnale e le mani dentro le muffole che tremavano, non di freddo ma di energia vitale.
— Eh sì. Hai ragione, piccolo. Poter vedere, anche se non sai ripetere. Ma chi diavolo ti ha messo in bocca quelle parole?
— Il gabbiano!
— Eh sì.
Di colpo il gabbiano e la luce del fiume lo abbagliarono in un abbraccio senza fine.