Immaginiamo un grande specchio.
Immaginiamo che in questo grande specchio si rifletta l’America. Oggi.
Immaginiamo ancora che, dopo averlo contemplato per un po’ di tempo, questo immenso specchio ci sfugga dalle mani e si frantumi in milioni di frammenti.
Immaginiamo, infine, che ogni frammento continui a rispecchiare, nel suo piccolo, tutta l’America. Oggi.
Che spettacolo sarebbe: in pochi centimetri percepiremmo un’infinità di cose, a tal punto che ci perderemmo.
Leggendo i racconti di Carver capita un po’ così. Leggiamo storie talmente assurde che sembrano nostre. Quel frammento di specchio riflette vite particolari, a tratti insignificanti, quasi insulse, ma che traspirano una luce che è la nostra. In quelle poche righe pulsano sentimenti, crepitano semplici azioni quotidiane in cui il lettore si perde: viene quasi voglia di saltare le pagine tanto sono stucchevolmente banali.
Poi all’improvviso un moto, un lampo, quando meno te lo aspetti. Come un interruttore della luce al neon: lo schiacci e hai una frazione di tempo incalcolabile, dopo la quale la luce prima fioca poi sempre più viva si fa spazio in un buio che era già illuminato dalla porta che avevi lasciata aperta.
Carver è uno di quegli scrittori illeggibili che ti viene troppo voglia di leggere.
Illeggibile perché spesso non racconta niente. Apparentemente niente: basterebbe il titolo del racconto. In realtà però nella sua superficiale quiete, nasconde una inquietudine umana invidiabile. Sigarette che si accendono, lattine di birra che sprizzano schiuma in continuazione, occhiate perse, sorrisi velati sfregamenti di mani in tasche abissali. Tutto è in quell’istante tra l’interruttore che schiacci e il neon che si accende.
Per poi scoprire che il frammento di specchio ti ha tagliato. E tu sanguini.
Apparentemente niente: appunto
eppure dice tutto…
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