STO ARRIVANDO

1.
Nel garage sotterraneo, solo uno stillicidio di goccia faceva eco ai passi di Salvo. Qualche neon ronzava sofferente, illuminando il cemento grigio del pavimento troppo freddo per il giovane agente di borsa, che aveva terminato ora la lunga giornata di lavoro.
Adesso il frenetico squillare di telefoni e lo scorrere incessante delle schermate azzurre dei pc era un lontano ricordo, lasciato in qualche piano superiore del grattacielo avveniristico in cui Salvo lavorava da qualche mese.
— Che giornata! — borbottò tra sé l’uomo, mentre scendeva l’ultima rampa di scale.
Gli occhi gli bruciavano e le orecchie pulsavano ancora il vociare del suo loft al ventiquattresimo piano.
— Hai voluto la bicicletta e ora pedala! — si ripeteva mentalmente, come un karma, Salvo, che aprì con uno spintone l’ennesimo maniglione antipanico di quel teatro tetro che lo avrebbe scortato alla sua auto, parcheggiata al posto 7 della fila B del secondo seminterrato, quello segnato come ROSSO.
— Porco boia che schifo ‘sto posto! E pensare che sopra sembra il paradiso. —
Con un gesto meccanico, tirò fuori dalla tasca destra dei pantaloni le chiavi della Mercedes e fece schioccare come una frusta l’antifurto: quattro lampi arancioni spremettero striduli l’oscurità e il cruscotto si illuminò con la sua opaca luce familiare.
La giacca gli scivolò per un istante da sotto il braccio e si accasciò floscia ai piedi di Salvo: l’uomo, con un vagito, si chinò, la raccolse e, inarcandosi con uno strappo stanco, si rialzò usando la pesante borsa stracolma di fogli come contrappeso.
— Ora basta, Dio mio, questo è l’ultimo sforzo di oggi! —
Inspirò profondamente, sfiatando poi violento e aprì la portiera della vettura: l’interno era maniacalmente pulito e ordinato e ciò rassicurò Salvo che, contraddicendosi, scaraventò confusamente prima la giacca poi la borsa sul sedile del passeggero.
A questo punto si appoggiò con gli avambracci alla macchina e chiuse un attimo gli occhi.

2.
La sua stanchezza trapassava nella lamiera della macchina, o così almeno sperava.
Tutto il guazzabuglio della giornata sembrava perdere consistenza in quell’ora tarda della sera, spossato in un seminterrato di un grattacielo della città.
Salvo riaprì gli occhi, si girò e si appoggiò sfiancato contro la portiera posteriore dell’auto.
Riecheggiarono nella sua testa le parole di suo padre, il giorno in cui era uscito di casa dei suoi genitori dopo aver comunicato loro che era stato assunto nella più grande azienda di brokers della città.
— Buon lavoro figliolo, sono fiero di te. —
— Già! — sussurrò a se stesso. E da quel momento era cominciata l’ascesa.
— Già! — ripeté Salvo.

3.
Con le ultime forze Salvo tirò fuori dalla tasca il pacchetto di Marlboro, ancora intatto dalla mattina.
— Neanche il tempo per una sigaretta — pensò.
L’accese feroce e aspirò avido, soffiando fuori un fumo denso che sporcò la luce tremolante del neon sopra la Mercedes.
Strizzò gli occhi e gli venne in mente la stessa spossatezza che provava da bambino quando, insieme a sua sorella, verso sera, assisteva al prodigio della diga, costruita su quel torrente vicino alla casa in montagna.
— Cacchio, Veronica! — disse a voce alta fissando la luce brillante della Marlboro e il fumo azzurrognolo che ridacchiava nell’aria. Veronica era la sorella di Salvo, che ora viveva a New York, con la sua famiglia. Faceva l’architetto.
— Veronica, mi passi un sasso medio? — scandì come quando aveva dodici anni, mentre scavava una buca e cominciava a montare la diga, che avrebbe creato una pozza d’acqua dove poter immergere i loro piedi.
E Veronica partiva, cercava, levigava, scartava, selezionava, soppesava, fino a quando allegra zampettava dal fratello più grande per porgergli quella pietra, a lungo sospirata.
— Grande Veronica! — ripeteva Salvo, con uno sguardo d’approvazione che faceva crescere la sorella di qualche centimetro. Ma era una lotta contro il tempo e non ci si poteva fermare.
— Ora una pietra più grande, ma non troppo, che la mettiamo qui, vedi? —
E i due bambini si chinavano a calcolare, a progettare, a indovinare un nuovo tassello per la loro opera.
Veronica ripartiva veloce, con i suoi saltelli e il suo equilibrio precario. Salvo la vedeva ancora adesso. Anzi, forse la vedeva meglio, adesso.
La scrutava nella sua memoria mentre parlava da sola per svolgere meglio, forse, quel suo compito così delicato, che lui le aveva assegnato.
Ora percepiva tutta la fierezza di lei, tutto l’orgoglio di quella bambinata nel poter servire all’opera di suo fratello, misterioso costruttore di dighe montane.
— Grande Veronica — si ripeté ancora Salvo.
In quel grande, detto a fior di labbra, c’era tutto l’amore verso la sua sorellina, così testarda, così formichina infaticabile.
— Già, proprio la testardaggine è ciò per cui vengo più lodato ora. Ma non è solo testardaggine: è più una devozione verso il mio lavoro. E questa devozione me l’ha insegnata Veronica, che, imperterrita, mi passava decine e decine di sassi. Avrà spostato almeno una sezione delle Alpi per aiutarmi a costruire quelle dighe inutili. —
Alla parola inutile, Salvo si fermò nel suo monologo interiore.
— Già: inutili. —
La sua testa si riempì del grigiore pallido e scuro del garage.

4.
Ora tirò nuovamente una boccata di Marlboro.
Il gusto aspro grattò la gola, che reagì con un colpo di tosse.
— No! Non sono state inutili! — sussultò al ricordo di Veronica.
Ora era fermamente sicuro: lui quelle dighe le costruiva col grande scopo di… Salvo era immobile.
— Dio mio, non mi ricordo perché le costruivamo! Possibile!? Quella povera bambina di mia sorella spostava una mole di massi pari solo a quelli che compongono la Muraglia Cinese, per cosa? —
Salvo ora aveva improvvisamente riacquistato la sua foga e si dimenava, incastrato in quel rompicapo assurdo.
Furente si girò verso la Mercedes e sferrò un pugno sulla capote, cosa che gli fece cadere la sigaretta, ancora mezza da fumare.
— Ma diavolo di un demonio! Perché progettavo quelle dighe!? Perché ho fatto lavorare per estati intere mia sorella? —
Salvo improvvisamente scoppiò a piangere: non riusciva a darsi pace a causa di questo ricordo che lo stava rodendo nelle ossa. Gli sembrava che la vita non sarebbe potuta andare avanti se non avesse risolto questo dilemma domestico.
Si sentiva un cretino, un idiota patentato: perché piangere? Perché disperarsi per una inezia di tale fattura!
— Non è un’inezia cacchio! — gridò, e sentì rimbombare la sua voce in tutti gli anfratti del seminterrato ROSSO. Solo la Mercedes sembrava disinteressata al suo dramma.
Si accese una nuova sigaretta.
Le mani gli tremavano, l’accendino pure: la fiamma era naturale che tremasse.
Ora due lacrime gli colavano sulle guance, fredde e salate. Tirò pure su con il naso. Si sentiva uno straccio.
— Basta, chiamo Veronica. —
Questo folle pensiero fu una saetta che trafisse l’ondata di confusione che lo stava sommergendo.
— A New York sono circa le 16. Non disturbo di certo — calcolò rapido, guardando il Daytona in carbonio regalatogli da suo padre.
Prese rapace il cellulare, fece scorrere la rubrica e la telefonata partì.
L’attesa fu snervante.

5.
— Hello? —
— Veronica? —
— Salvo!? Ciao! Come mai mi chiami adesso!? È successo qualcosa? —
La voce della donna era allarmata.
— Perché le facevamo, Veronica? —
— Salvo? Tutto bene? —
— Sì Veronica, volevo solo chiederti perché le facevamo? Le dighe, dico! —
— Ma di cosa stai parlando Salvo? Non capisco! Stai bene? È successo qualcosa di grave? —
— Ma no, Veronica. Stiamo tutti bene: per quale motivo devi sempre pensare a qualcosa di tragico quando ti chiamo? Devi solo ricordarmi per quale ragione costruivamo le dighe da ragazzini? —
Calò un silenzio imbarazzato tra l’Italia e gli Stati Uniti.
— Ok, Salvo, facciamo finta che questo dialogo abbia un qualche senso, anche se mi sembra di essere entrata con Alice nel paese delle meraviglie e di stare allegramente chiacchierando con il Cappellaio matto! —
— Ti ringrazio molto, sorellina cara. —
— Ti prego Salvo non parlarmi così! La mia era ironia! Comunque… certo che mi ricordo delle dighe: ora mi stai domandando le motivazioni di un gioco che facevamo  da piccoli!? —
— Certo! —
— Ma cosa cavolo ne so!? Sono passati venti anni, e a malapena a quell’epoca sapevo di chiamarmi Veronica! Dio mio, Salvo: cosa mi stai chiedendo, come faccio a ricordare? —
— Già, ti sei sempre vantata di sapere tutto e di avere molta più memoria di me e ora sul più bello mi abbandoni? —
— Cavoli mi mancavano i tuoi “già”. —
— Già! —
— Salvo ti prego smettila, ritorna in te! Non so cosa ti stia succedendo e a dirla tutta mi sto cominciando a preoccupare. —
— Le dighe, piccola, aiutami. —
— Ringrazia solo che sono un po’ di fretta e devo terminare questo delirio transoceanico. Dunque: le dighe le facevamo perché ci piaceva farle! E mi sembrava che tu fossi contento alla fine, quando io mi specchiavo in quella pozza d’acqua limpida dove immergevamo i nostri piedi e stavamo lì, felici della nostra opera. Tu ridevi nel vedermi schizzare l’acqua con quei movimenti rapidi dei miei piedini. Ridevi tanto ed eravamo contenti. Poi ci rinfilavamo le calze e le scarpe e tornavamo a casa correndo. Poi il giorno dopo tutto era crollato e ricominciavamo da capo! Non so bene quale fosse la ragione profonda di tutto questo fare, ma tu eri contento di vedermi felice e viceversa. —
Un silenzio abissale, lungo migliaia di chilometri, divideva i due, ma Salvo non sentì mai così vicina sua sorella.
— Grande Veronica! Mi hai salvato. —
Veronica dall’altra parte del mondo abbracciò suo fratello e Salvo percepì distintamente la stretta calorosa e commossa della ragazza, oramai donna.
— Sono tranquilla ora, Salvo. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che mi avevi detto “Grande Veronica”. Mi mancava. —
— Già! Anche a me. —
— Ora ti devo lasciare, fratellino. Mi raccomando: non fare casini. Ricordati che sei quello intelligente della famiglia! —
— Già. Ma tu sei quella che mi salva. Non dimenticarlo. —
La linea cadde improvvisamente, per volere di chi sa quale destino.
Ora però Salvo poté staccarsi dalla Mercedes che lo aveva sostenuto in tutto questo tempo.
— Diavolo! Come ho potuto dimenticare che lo facevo per rendere felice mia sorella!? —
Si accese la terza sigaretta e questa volta poté godersela fino in fondo, senza distrazioni e senza paure.
Quando la finì, la buttò in un tombino muto ai suoi piedi.
Salì in auto e scrisse a sua moglie: amore, ti amo. sto arrivando.
E infilò la retromarcia.

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