UN CHIASSO INTOLLERABILE

1.
Un fiume di musica ritmata e assordante fece irruzione dalla finestra nell’appartamento.

Simon stava dormendo faticosamente, abbarbicato sulla poltrona della piccola stanza che, orgogliosamente, chiamava salotto.
— Dannati peruviani! —
Piegandosi da un lato, rastrellò con la mano il pavimento alla ricerca di qualche oggetto contundente: l’unica cosa che le sue dita incontrarono, fu una biro mangiucchiata con cui aveva provato in precedenza a fare una lista della spesa per la cena della sera.
Dopo averla impugnata, su un equilibrio precario, si tese in un arco improbabile che culminò in un lancio isterico: la biro, compiuta la sua fragile parabola, si infranse contro la parete color crema, ben lontana dalla finestra aperta a cui aveva invano aspirato.
— Dannati peruviani! —
L’insulto echeggiò nuovamente nell’aria calda del pomeriggio.
Simon si lasciò cadere a fianco della poltrona, sommerso dalla ondata sonora proveniente dal cortile interno, dove si andava consumando un’allegra festa sudamericana.

2.
Simon non coltivava particolari motivi per odiare i suoi coinquilini peruviani; tuttavia, quando allestivano i loro party pomeridiani, gli sembrava che le porte degli inferi si spalancassero di fronte a lui e che il demonio stesso avesse le fattezze di quei bassi omini dalla pelle mulatta.
Ad esasperare i suoi nervi era quella musica ossessionante che mandava letteralmente fuori di testa Simon.
— Posso ad accettare tutto, ma questo chiasso è intollerabile. Perché non si accontentano di mangiare insieme punto e basta!? A dirla tutta, neanche questo lo concepisco, ma non lo vieto di certo a nessuno. Ma la musica, no! La musica è irrispettosa, irriverente, invadente! Possibile che non lo capiscano! —

Simon, nel tempo, non si era limitato solamente a imprecazioni passive. In alcuni casi, infatti, era passato all’azione: una volta aveva manomesso l’impianto elettrico di tutto il condominio, causando un black out di quattro ore.
In un’altra occasione, aveva cominciato a tirare di sotto secchiate d’acqua, con l’unico risultato di scatenare una battaglia di gavettoni tra i chiassosi inquilini.
Purtroppo per lui, dunque, i tentativi di frenare la vitalità dei vicini si stavano dimostrando un fallimento.

3.
Simon si alzò stancamente e d’istinto chiamò il figlio.
— Alan? Tutto bene? —
La voce del ragazzino arrivò sporcata dal fracasso circostante.
— Sì papà! Quando giochiamo con la palla? —
Simon udì il figlio tirare ripetutamente su con il naso.
— Forse ha pianto — pensò.

4.
Alan aveva otto anni ed era in piena fase caotica infantile.
Qualsiasi cosa dovesse fare, la faceva rompendo qualche cosa e urlando a più non posso.
Come prevedibile, Simon non lo sopportava assolutamente.
Non sopportava la sua baldanza impetuosa; ancor meno tollerava la sua insolente vitalità; ma più di tutto soffriva la sua voglia violenta di fare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, incapace di rendersi conto se fosse in grado di portarla a termine.
In particolare, da qualche mese, vedeva il figlio imitare ogni gesto che lui iniziava.
Se Simon cominciava a sbraitare contro qualcuno, subito il figlio attaccava a farfugliare parole ad alta voce, spesso senza nessun significato o senso logico. Quando il padre si metteva d’impegno a riordinare la casa, si ritrovava alle calcagna un piccolo tornado: Alan si lanciava ad accendere e spegnere le luci di ogni stanza, gettava a terra cuscini per poi risistemarli alla rifusa sui letti, sulla poltrona, sui mobili.
In questa attività febbrile, inevitabilmente, il ragazzino era incurante degli spigoli e delle sporgenze che delimitavano gli spazi, causando piccole catastrofi domestiche.
Ma tutto ciò al bambino sembrava non interessare.
Il suo era un raptus euforico e pieno di gaiezza, condito da grida di giubilo e versi preistorici in grado di seppellire sotto metri di terra desertica la pazienza del padre.
Simon oramai non sapeva più come gestire la situazione.
Un giorno si ritrovò a cercare su internet un fantomatico “Ufficio reclami per bambini con eccessi di vitalità”. Non trovò evidentemente nulla, ma pensò che la definizione “eccessi di vitalità” non fosse sufficientemente descrittiva della tempesta infantile a cui era sottoposto.
Così, messi a tacere gli istinti più selvaggi contro il piccolo Alan, si comprò due tappi per le orecchie, che tuttavia non ebbe mai il coraggio di utilizzare.
L’unica soluzione concreta che riuscì a mettere in pratica per trovare un po’ di pace, fu di deviare i suoi eccessi di rabbia contro le intemperanze musicali dei suoi vicini peruviani.

5.
— Papà! Quando giochiamo con la palla? —
La voce di Alan proveniva dalla stanza vicina ed era un’altalena che andava e veniva nella testa di Simon.
— Ehi piccolo, ti ho già detto cento volte che in casa non possiamo giocare a pallone. La mamma non vuole! —
La risposta, lasciata cadere da Simon sul pavimento, rotolò via innocua.
— Ma ieri hai detto a mamma che quando mamma è fuori tu comandi in casa e che non ti deve rompere i… —
— Alan! Smettila di ripetere tutto quello che dico: te l’ho già detto mille volte! I discorsi di mamma e papà non li devi ricordare! E poi non li devi ripetere, hai capito? —
Simon decise di alzarsi in piedi.

6.
Alan entrò nel salotto dove il padre stava gridando.
Lo fissò con un due occhi arrossati e confusi, ma tutt’altro che sottomessi.
— Uffa! Se mamma non c’è, giochiamo a pallone. L’hai detto tu! — ripeté ostinato il bambino.
A completare l’arringa, il bambino aprì la porta dell’armadio vicino al televisore, prese un pallone bianco latte e lo tese verso Simon mentre da fuori uno scroscio di grida misto ad applausi incorniciò il deflagrare di una bottiglia.
Il padre, socchiudendo le palpebre appesantite e maledicendo la sua stessa lingua, non ebbe la forza di opporsi all’ostinazione del figlio.

7.
Simon sapeva benissimo che per chi viveva da sempre in un appartamento, era naturale vedere un parco giochi anche tra quattro anguste pareti color crema: e Alan ci era in nato in questa riserva urbana.
Il padre non aveva ancora finito di formulare questo pensiero, che dovette allungarsi per salvare il suo posacenere da una rovinosa caduta sul tappeto appena tirato a lucido dalla tintoria in cui lavorava sua moglie.
— Alan, per l’amor di Dio! Fai attenzione! Tua madre ci tiene a questa pezza di stoffa! —
Suo figlio, però, era già partito alla rincorsa della palla che, minacciosamente, si stava avvicinando ad un vaso orrendo, un regalo della suocera già defunta che, quindi, non avrebbe potuto lamentarsi con Simon per una sua eventuale disattenzione.
— Olé! — fu l’unica risposta che ottenne dal figlio, tutto intento a tirare il secondo calcio a quella che era diventata un’arma di distruzione casalinga.
— Alan tira piano! —
Le parole di Simon furono accompagnate da un buffo saltello verso il traballante tavolino al centro della stanza.
Schieratosi a barriera del vaso, poté afferrare con virilità la palla e aggiungere, alle minacce verbali, uno sguardo intimidatorio contro il figlio.
— Alan! O tiri bene, oppure ti faccio sparire la palla una volta per tutte! —
Alan si ammutolì per un istante. Poi, come se nulla fosse, si spostò, trotterellando ansimante vicino al televisore.
— Io tiro sempre bene, papà! Ora tira tu. —
Simon, constatata l’inutilità dei suoi richiami, mise arrendevolmente il pallone a terra.
Fatto un rapido calcolo balistico, calciò con grande attenzione l’oggetto infernale: la palla viaggiò tranquilla per tutta la stanza fino ai piedini nudi del figlio.
Simon, tra sé e sé, si complimentò per la precisione messa in atto e con un veloce gesto delle le mani si sistemò un ciuffo di capelli ribelli.

8.
— Papà! Ma questo non è un tiro! Tira bene! —
Simon si sentì ferito nell’orgoglio e reagì nervoso.
— Come sarebbe a dire? Questo sì che è bel tiro. La palla ha schivato tutti gli ostacoli: non è che si tira per spaccare tutto. Devi imparare a controllare la forza e la precisione, Alan! —
Mentre Simon disquisiva sull’estetica del suo tiro, il figlio aveva preso la palla in mano e, dopo averla fatta rimbalzare, scatenò il mancino.
Questa volta l’impeto culminò in un lancio diretto contro la lampada vicino alla finestra: il padre ebbe solo la forza di assistere alla rovinosa caduta dell’oggetto che si fracassò sul pavimento.
— Olé! — gridò il bambino.
Simon perse la speranza di gestire diplomaticamente la situazione e si lasciò andare impotente sulla poltrona.
— Perché ho un figlio che non ascolta suo padre? —
Il suo fu un grido quasi disperato.
Alan balzellò verso di lui come una papera.
¬— Ma papà: io non ti ascolto perché tu non ascolti nessuno. —
L’uomo storse infastidito la testa verso il suo piccolo tormento.
— Chi ti dice queste cose? — protestò.
— La mamma. Lo dice sempre la mamma! L’ha detto anche oggi, prima di uscire, questa mattina. Ti ricordi? Ha anche sbattuto la porta della cucina e ha rotto il vetro! —
Simon in un istante rivide la scena della mattina scorrergli davanti agli occhi e non fu un ricordo piacevole.

9.
— Sei uno stupido Simon! E ringrazia Dio che sia qui tuo figlio, altrimenti non te la caveresti tanto facilmente. —
Simon dava le spalle alla moglie e stava armeggiando con una confezione di caffè che faticava ad aprire.
— Fai pure finta di non ascoltare: sei proprio un uomo di razza! Una cosa dovevi fare: chiamare quel ladro di un meccanico e alzare la voce ottenendo ragione almeno una volta nella vita. “Ah, ma puoi fidarti di me: Ray è un mio amico! Vedrai che ci tratterà bene!”. Mi hai detto così la scorsa settimana, no!? Beh, dopo averci fregato, perché non può non averci fregato un meccanico che per una valvola – così ha detto, no? –, ora, il tuo amico Ray, ci chiede cinquecento euro! E tu non hai neanche il coraggio di alzare il telefono e chiedergli il perché!? Ma forse, ho sposato il buon samaritano, un talebano del “porgi l’altra guancia”!? Dove li troviamo tutti questi soldi!? Dimmi Simon: dove li troviamo? E per che cosa poi? Per una macchina a cui aggiusti una valvola e si rompe un pistone; a cui aggiusti il pistone e si rompe… che ne so cosa si rompe, ma di certo si rompe, qualsiasi cosa sia! —
Il marito

stava muto, continuando a strattonare la confezione di caffè. Il movimento delle mani assomigliava a quello di una donna intenta a sferruzzare a maglia.
— Ehi! Hanno inventato le forbici per aprire i sacchetti chiusi, lo sai?!
— Puoi stare zitta un attimo Sarah. —
La frase di Simon fu una pugnalata.
Sarah esplose.
Alan cominciò a frignare.
— Ah certo: cafone che non sei altro! Tu puoi sbraitare quando vuoi e per qualsiasi cosa ti dia fastidio. Gli altri, invece, devono rispettare la tua sensibilità!
Chi è che oggi andrà a lavorare sotto un sole che spacca le pietre? Io! Chi è che stasera se ne tornerà ammucchiata su un pullman per più di un’ora: io! Chi è che chiamerà la maestra per giustificare l’ennesima assenza da scuola di Alan: io! Chi è che… —
La confezione di caffè fece un botto e il contenuto si sparse sul pavimento come la brina mattutina.
Il suono secco zittì la donna.
Alan proruppe in lacrime.
Simon si girò cadaverico, ma la sua voce scattò come una molla.
— Senti Sarah! Vuoi che me ne torni in carcere?
Lo sguardo di Sarah non vacillò: stava solo prendendo fiato.
— Non ti azzardare a dire certe cose davanti a tuo figlio!
Poi la madre squadrò il bambino, incurante dei lacrimoni che gli rigavano la faccia, e gli ordinò di sparire.
Alain sgambettò fuori dalla cucina.
10.
Simon cercò di riordinare le idee, ma era stanco, sebbene si fosse svegliato da poco.
Sarah tacque per qualche secondo: sapeva infatti benissimo dove andare a colpire il marito che, goffamente, cominciava a pulire la tavola ricoperta di caffè.
— Ascolta Sarah… devi capire che per me è difficile ricominciare. Io cerco di fare quello che posso… Ascolta, io… —
— Piantala di ripetermi che devo ascoltarti! Tu non ascolti nessuno, però tutti devono ascoltare te! Tu non fai quello che puoi: tu fai quello che vuoi e, se non l’hai ancora capito, tu non vuoi fare niente! Sarai pure uscito di galera, e di questo Dio sia ringraziato, ma ora ti stai costruendo una prigione qui, in questa casa, nella tua testa, su quella maledetta poltrona. Attorno a te vedi solo sbarre e tratti me come se fosse il tuo secondino; anche tuo figlio lo guardi come un carceriere! Non puoi farci questo! Non puoi! —
Simon alzò lo sguardo verso la finestra e sentì le prime note di una nuova melodia sudamericana.
— Dannati peruviani — sussurrò.
Sarah sentì l’imprecazione del marito. Stremata, strabuzzò gli occhi.
— Eh certo! Ora il problema della nostra vita sono questi poveri cristi di peruviani! Ma va al diavolo Simon: almeno loro se la godono un po’! —
Simon serrò le labbra e socchiuse gli occhi.
— Non capisci proprio niente Sarah. Sono stanco. Vado a riposarmi sulla poltrona. Tu vai pure a salvare il mondo: io al massimo farò la lista della spesa per la cena. —
Detto questo, lasciò cadere il caffè per terra e si mosse grattandosi nervosamente la spalla sinistra.
Sarah divenne dura come il marmo.
La schiena vibrava dentro la giacca troppo grande.
Le mani si aggrapparono alla punta delle maniche.
Con una rabbia cieca raggiunse la porta prima del marito e se la tirò dietro con una tale violenza che una crepa segnò il vetro smerigliato dell’anta.
Simon ebbe il tempo di fare un passo indietro, poi il vetro si frantumò a terra.
Sarah scomparve, lasciando solo il ritmo della musica peruviana a stuzzicare l’aria.

11.
Quando il ricordo sfumò, Simon aveva perso di vista Alan.
Con la coda dell’occhio intravide i pezzi di vetro della porta della cucina.
— Forse stamattina ho esagerato — rimuginò senza troppi rimorsi.
La poltrona lo invitava a lasciarsi prendere in un abbraccio soffocante, ma Simon si liberò da questa tentazione con uno scatto imprevisto.
Poi si prese la testa tra le mani e aspettò per qualche interminabile istante.
Sarebbe stato capace di stare per ore in quella posa, magari anche per giorni.
Si appoggiò con la schiena alla parete e tutto parve caricarsi di un’attesa infantile e impaziente.
Alain, da qualche parte, fece improvvisamente cadere qualcosa e l’incantesimo si interruppe.
Simon liberò la testa dalla morsa delle sue dita e si passò una mano fra i capelli spettinati. Il gesto fu così nervoso che gli strappò un sorriso.
— Dovrei tagliarmi i capelli: oramai non riesco più a gestirli. —
Fu forse l’assurdità della considerazione sullo stato dei suoi capelli, ma quest’ultimo pensiero fu come una frustata.
In qualche maniera, sentì tremendamente familiare quel ciuffo ingestibile.
— Adesso devo aggiustarmi i capelli! —
Non fu certo uno scatto quello che lo portò ad alzarsi dalla confusione circostante ma, con un certo stupore, Simon si ritrovò a compiere dei passi.
Dalla un’altra stanza Alan aveva cominciato a canticchiare un motivetto che il padre considerò quasi piacevole.
Simon fece per muoversi quando, con la coda dell’occhio, si accorse dei vetri rotti della porta che dava sulla cucina.
— Dio mio! Allora è successo tutto veramente. —
La sua mano, nel frattempo, si impegnava ad abbassare la chioma ribelle che gli ballonzolava sul sopracciglio.
Poi gridò.
— Alan non andare in cucina mi raccomando oppure la palla non la vedi per una settimana! —

12.
Con una scopa trovata abbandonata dietro al frigorifero, raccolse i vetri e il caffè disseminati sul pavimento.
Terminato il lavoro, si sentiva stanco, ma una frenetica musica proveniente dal cortile lo tenne in moto.
Questa volta Simon non inveì contro i suoi vicini.
— In fondo, voi ve la state godendo un po’, no? L’ha detto pure Sarah. Già, voi godetevela pure… —
L’uomo non ebbe il tempo di terminare la frase che vide Alan comparire con la sua testolina e la palla stretta tra le braccia: la stava stringendo con la stessa forza con cui lui strapazzava la sua esistenza.
— Bravo papà! Quando aggiusti le cose fai contenta mamma!
— Veramente? — rispose Simon.
— E chi te l’ha detto? A me non piace aggiustare le cose! —
Alan serrò le labbra per pensare ad una risposta.
— Eh… non lo so chi l’ha detto! — e il pallone gli cadde dalle mani impegnate improvvisamente a gesticolare nell’aria.
Simon raccolse la palla e la ridiede al figlio.
— Grazie papà! — cinguettò il bambino che scappò saltellando come un grillo.
Fu a questo punto che Simon si accorse di “aver aggiustato” una seconda cosa in pochissimo tempo: o almeno, così avrebbe detto Alan.
— A me non piace aggiustare le cose! — si ripeté da solo mentre, ansiosamente, cercava il biglietto su cui era sicuro di essersi appuntato il numero di telefono del meccanico, quello che Sarah considerava un suo amico.
— Io non conosco nessun meccanico di nome Ray! Come può Sarah pensare, addirittura, che sia un mio amico. Roba da matti! —
Il biglietto col numero in questione saltò fuori dopo una decina di minuti e Simon, dopo qualche squillo, come se fosse la cosa più naturale della sua esistenza, si scagliò contro il mondo delle autofficine con tutta la veemenza che aveva in corpo.

13.
Simon, alla fine, fu fiero di sé.
La telefonata con questo Ray non era stata amichevole, tuttavia Simon era contento: tra una sfuriata e l’altra, aveva ottenuto che l’automobile fosse pronta per la sera stessa e che i 500 euro di riparazione diventassero 400. Aveva poi anche raggiunto lo scopo di poter pagare il lavoro in un arco di due mesi.
— Questo Ray non è mio amico: come può Sarah aver pensato questa cosa?! — continuava a ripetersi Simon ancora nervoso, mentre armeggiava selvaggio con delle forbici da cucina per accorciarsi quel benedetto ciuffo che gli solleticava il sopracciglio.
Alan si divertiva a fare capolino nella cucina, saltando a destra e a sinistra. A volte abbracciava le gambe del padre, che si vedeva così costretto a frenare le sforbiciate ai capelli.
— Dai Alan! Staccati da tuo papà: mica lo vorrai senza un occhio come un pirata! Staccati dai! —
Il figlio allora corse via, ridendo felice.

14.
Finito il ritocco estetico, Alan si appoggiò al frigorifero.
— Comunque, aggiustare le cose non fa per me. Già… non mi piace aggiustare le cose. —
Più si ripeteva questa frase però, più gli tornava alla mente la moglie che spariva dietro la porta, quella porta che ora piangeva il vetro rotto.
L’anta sfregiata gli appariva come uno strazio nel cuore.
— Diavolo, mica posso lasciare quello scempio! Cosa dirà Sarah quando torna? —
I peruviani, sotto nel cortile, sembravano essersi dati una calmata.
Le ultime risate facevano oramai da contorno ai ragionamenti di Simon, un po’ come Alan, che era seduto per terra nel salotto a parlottare con il tappeto.
— Va bene Simon: adesso provi a pensare a come aggiustarla. Così, Sarah è contenta…, giusto Alan? —
L’ultimo pezzo di frase lo disse alzando la voce, ma il bambino non poté capire il senso della domanda: pensieroso, alzò la testa sorridendo, tutto concentrato a dare l’ennesimo pizzicotto al tappeto finto persiano tanto caro alla madre.
Anche Simon sorrise.
— Bravo Alan: tu, d’altronde, sei di quei carcerieri che lasciano scappare i loro prigionieri, vero? —
Questa frase non uscì mai dalla sua bocca, forse perché la disse più per sé che per il figlio.
La festa sudamericana, intanto, andava scemando, lasciando spazio ad una risacca di conversazioni confuse: ma Simon adesso aveva altro di cui occuparsi.

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