UNA SEMPLICE RICHIESTA

1.

— Cosa vedi Flori? —  chiese Tino alla nipote, che ballonzolava spensierata sulle sue spalle.
— Gli ombrelloni, quelli blu e bianchi, poi il mare, che però si muove troppo veloce e non riesco a dire di che colore è. —
— E ora? —  continuò Tino, sforzandosi di alzarla in piedi sulle spalle.
— Tutto! Tutto! Vedo tutto: la gente, i bimbi che giocano a fare le buche, ce n’è uno con una carriola carica di sabbia; c’è un signore che dorme su un materasso azzurro grandissimo! Poi due signori litigano. —
— Ok, ok Flori! Adesso ti rimetto sedere: oramai stai diventando pesante e tuo nonno comincia ad essere vecchio. —
Tino era un anziano di settantacinque anni.
Ultimamente non era stato troppo bene, ma alla vacanza con la nipotina Floriana non aveva voluto rinunciare per nulla al mondo, anche se il medico non era stato troppo entusiasta.
Sapeva che la vacanza con una bambina ancora piccola l’avrebbe affaticato, ma Tino era stato irremovibile. Le spalle erano un poco doloranti, le gambe cominciavano ad essere rigide, ma cadesse il cielo se non avesse ancora una volta portato sua nipote sulle spalle, sul lungomare, verso sera, come faceva oramai da sette anni.
I suoi occhi affogavano in quelli di Flori e quell’affogare per lui era dolcissimo; le sue mani da vecchio contadino tenevano strette le dita della bambina e i suoi calli sfregavano leggeri sulle unghiette di Floriana.
I piedi nudi della nipote battevano con un ritmo sincopato e regolare sul torace del nonno che, sfiatato dagli anni, rispondeva con un suono quasi primordiale, che gli rimbombava in tutto il corpo, rinvigorendolo.
Tino rallentò il passo, sentendo il fiato contrarsi in un colpo secco. Appoggiò Floriana sul muretto che dava sulla spiaggia, tenendola per le gambe.
Ora entrambi gli sguardi sfociavano sul lungomare: due sguardi diversi e allo stesso tempo uguali.
La spiaggia si stava svuotando con movimenti simili al volo dei gabbiani, movimenti repentini e imprevedibili. Il sole era alle loro spalle e rapidamente allungava le ombre, abbreviando i dialoghi dei bagnanti, dialoghi sempre più frettolosi e declamati.
— Ti piace Flori? —
Tino godeva nel porre queste domande così aperte e indefinite, come il mare di fronte a loro.
— Solo i bambini — pensava — sanno rispondere con precisione a questi quesiti impossibili. Gli adulti invece preferiscono troppe volte parlare come le parole crociate: dialoghi assurdi, chiusi e a volte incoerenti e sconnessi. Inutili insomma. —
Floriana non si fece attendere.
— Sì! Mi piace tanto tutto, mi piace la bandiera che sventola, là, dove c’è la signorina Maria, la bagnina. Sventola benissimo, come la mia gonnellina! — e nello stesso tempo fece un gesto ondeggiante con le anche, per far ballare il suo vestito bianco. Il lino della gonnella colpì gli occhiali del nonno che si lasciò schiaffeggiare da quella ventata inaspettata.
— Ecco — rifletté Tino — quella bandiera verde riassume tutto il bello di quel mi piace tutto. Una sintesi perfetta di quel momento per lei unico. Un particolare capace di racchiudere tutta quella vastità e varietà: ed è solo una bandiera che sventola! —
L’uomo fissò quel movimento così calmo, che assecondava il nervosismo del vento, ancora caldo e rassicurante. Tino si era fermato in questi pensieri, quando Floriana lo richiamò alla realtà.
— Nonno, ma perché i grandi litigano così tanto? —  L’anziano fu colto di sorpresa. Ora la domanda impossibile era stata rivolta a lui.
— Ma, perché non sempre si è d’accordo sulle cose. —
La voce del nonno inciampava.
— Però poi si fa sempre la pace, vero? Io faccio sempre pace quando litigo, mentre gioco. —
— Sì, anche se tra gli adulti è più complesso; a volte non si riesce sempre a fare pace. —
— Ma perché, nonno Tino? È così semplice fare pace, no? —
— Sì, non sempre però: bisognerebbe sempre fare pace, lo so: tuttavia è complicato. Certe volte sembra impossibile, in altri momenti è miracolosamente facile. —
A questo punto cadde un silenzio di piombo: Tino tirò giù dal muretto Floriana e si sedettero sulla panchina più vicina. L’anziano era stanco, la sua testa era stanca, il suo cuore era stanco.
Tutto il suo corpo era spossato, ma di quella spossatezza dovuta al pensare greve, così come quando si prende sul serio una domanda impossibile. Ma più ci pensava, più quella domanda immensa gli sembrava di averla vissuta nella sua carne, fin dentro le ossa.
Floriana sentiva la fatica del nonno e appoggiò la testa sulle sue gambe, come per sentire più da vicino i pensieri brutti che lo assillavano.
Tino accarezzò i capelli aurei della nipote e chiuse gli occhi.

2.
Fu proprio in quell’istante che rivide nella memoria sua moglie, Diana, morta un anno prima.
Ma non fu tanto questo ricordo di morte ad appesantirgli il cuore, quanto il pensiero dell’ultima grande litigata avuta con lei, due anni prima, due anni prima che venisse a mancare.
Fu una mega litigata, come avrebbe detto Floriana.
Tino infatti aveva tradito sua moglie con una turista russa, durante un dicembre strano.
Era stata la più grande sbandata della sua vita, che scosse comprensibilmente la vita matrimoniale con Diana.
— Ma come ho potuto —  cominciò a ripetersi Tino —  come ho potuto! Avevo la moglie più bella e più brava dell’universo. Come ho potuto? E poi a settantatré anni! Cosa pensavo di fare!? Sono veramente uno stupido, sono stato veramente uno stupido. —
L’ultima parte del suo dialogo interiore la gridò ad alta voce. Floriana abbracciò e gambe del nonno.
— No nonno, non sei stupido! Perché dici così? —
L’uomo appoggiò gli occhi sulla testa piccola e ricciuta della nipote e la accarezzò.
Ma non rispose.

3.
I suoi pensieri ritornarono a quel litigio del dicembre del 1999.
In quell’ora infernale, dentro un piccolo appartamento di montagna, Tino rimaneva però sempre inchiodato ai minuti finali, a quelle parole di Diana, che non aveva mai compreso fino in fondo.
Dopo una mitragliata di accuse più che legittime della moglie, e una patetica difesa d’ufficio di Tino, Diana se ne uscì con una frase che a lui parve misteriosa.
— Comunque Tino, ora piantiamola qui, non siamo più ragazzini. Io mi sono sfogata a sufficienza e tu ti sei umiliato abbastanza, te ne dò atto. È più di cinquanta anni che stiamo insieme e quanto io ti ami tu lo sai. Tu mi continui a dire che è stato un errore. Come faccio a non crederti? Ti conosco da troppo tempo e so quando sei sincero e quando non lo sei: e ora lo sei. Stai tranquillo, l’ho capito. Per questo motivo, la vicenda, dal mio punto di vista è chiusa. Punto e basta. Ti chiedo solo una cosa. Ora devi risolverla con il buon Dio. E questo puoi farlo solo te. Hai due giorni di tempo. —
Detto questo uscì di casa.
Tino si ubriacò di solitudine.
— Risolverla con il buon Dio!? E come faccio? Sarà dal giorno del matrimonio che non metto più piede in una chiesa! Ma come si permette?! —
Poi ripensò alle lacrime di Diana, al suo dolore, alla sua vergogna, alla sua difesa imbarazzante, alle sue accuse, a lui che ingiustamente aveva alzato la voce, al suo pianto disperato.
Al fatto che lei gli avesse fatto solo una semplice richiesta.

4.
Nei suoi ricordi, il giorno successivo fu il più strambo della sua vita.
Dopo una lunga passeggiata insicura e carica di nostalgia per Diana, entrò, come una talpa nel suo rifugio, in una chiesa qualunque del paese.
Si inginocchiò in un confessionale: le ginocchia gli bruciavano, come le sue mani e le sue labbra.
— Vorrei riconciliarmi con Dio —  disse rapido. Il termine riconciliarsi lo aveva trovato su Google, alla ricerca “chiedere scusa a Dio”.
— Bene fratello, sei nel posto giusto — rispose una voce al di là della grata, una voce che riconobbe subito familiare, troppo familiare.
Tino sì bloccò. Dove l’aveva già sentita quella voce? Meditò qualche secondo: poi fu un flash.

5.
— Vito! Ma è possibile che tu sia Vito!? —
— Un attimo, un attimo, non mi dica niente — rispose la voce di un anziano.
Dopo qualche secondo il prete riprese a parlare.
— Ma certo: Tino! Dio mio che piacere! Certo che sono Vito. Mi ricordo il tuo matrimonio, con Diana! Certo come dimenticarlo. Eri già ubriaco durante la funzione!
Tino impallidì.
— No! — pensò — come è possibile! Dio mio, no! Come faccio adesso a confessare il mio tradimento a colui che mi ha sposato! Porca miseria! Che casino! —
Nel frattempo don Vito era uscito dal confessionale e abbracciò, vigorosamente il suo vecchio amico, se così si poteva considerare.
— Se aspettavi ancora un po’ a venirmi a trovare, io ci lasciavo le penne. Oramai sono un vecchietto più di là che di qua. —
Pur con mezzo secolo sulle spalle, notò Tino, era sempre lui, il buon vecchio Vito, con cui aveva passato tutta l’infanzia, per poi proseguire, ad un certo momento della vita, su due strade diverse.
— Come state te e tua moglie? — domandò sottovoce il prete, con negli occhi lacrime di felicità.
— Eh, ecco, bene, però dovrei confessare una cosa proprio riguardo a noi due. —
A dire il vero, la “cosa”, riguardava solo a Tino, ma l’uomo era in uno stato confusionale e non sapeva più bene articolare frasi di senso compiuto.
— Ma certo, ma certo — e Vito si sedette, tremando, tra i banchi un po’ impolverati della chiesa.
Tino rimpianse la grata del confessionale: ora lo sguardo del vecchio prete era ancorato a quello del vecchio uomo, marito e peccatore.
Il quadro era completo: due anziani, uno di fronte all’altro, due vite e un dialogo impossibile.
Tino fece uno di quei panegirici per dire e non dire quello che doveva dire e certamente Dio si stava facendo delle risate grasse.
Don Vito era concentratissimo per cercare di capire qualcosa in quel labirinto di parole.
Alla fine i due rimasero in silenzio per un attimo, fino a quando Vito si sciolse in un pianto di felicità.
— Ho capito. — disse lapidario, ma con un tono di profonda comprensione.
— Ora puoi andare e stai tranquillo — ribadì il prete, asciugandosi gli occhi.
Poi prosegui.
— Tu non sai quanto sia bello vedere un’anima risanata, grazie. —
Tino non capiva: era pronto a chissà quale penitenza infernale, e invece tutto si stava risolvendo in un grazie, detto così, con le lacrime che colavano sulle guance, che però non erano le sue.
— Ma, non devo fare altro? Finisce tutto, così? —
— Beh, di’ una preghiera che vuoi, dedicandola a tutti quelli che non hanno l’umiltà di compiere il tuo gesto. —
— Veramente io non mi ricordo troppo le preghiere: so bene solo il De profundis, che ripeteva sempre mia madre e io con lei, ma non mi sembra molto adeguato. —
— Come no! Ecco: di’ un bel De profundis per il tuo peccato che è belle che crepato, e anche per la tua cara mamma che te lo ha insegnato!
Ora anche Tino piangeva, si alzò, abbracciò il vecchio amico prete e uscì dalla chiesa.
Libero.
Diana, con sua massima sorpresa, era fuori ad aspettarlo.
E fu il paradiso.

5.
Quando i suoi pensieri finirono questo viaggio nel passato, Floriana si era addormentata sulle sue gambe. Quanto tempo fosse passato, non poteva saperlo e non voleva saperlo.
Tino faticò a riaprire gli occhi: era stanchissimo, ma di quella stanchezza ristoratrice.
Sentì la testolina di Floriana muoversi e la accarezzò.
A questo punto, la stanchezza divenne un torpore che lo fece cadere un po’ sulla sua destra. Sentì le forze venire meno il cuore rallentare il suo battito.
Quando riaprì gli occhi, Flori lo fissava adorante.
I suoi occhi erano quelli di Diana; il movimento dei capelli le ricordava quando sua moglie si divertiva a giocare con il vento, col quel ridere unico. Flori lo guardava incantata.
— Nonno, mi vuoi bene? —
— Certo piccola — e la strinse a sé, sentendo il profumo di mare, di Diana.
— Finalmente — disse Tino.
E fu di nuovo il paradiso.

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